Storie di chi vive alla Caffarella

Sabato 28 dicembre insieme a Carla Finn, guardiaparco del Parco Regionale dell’Appia Antica, abbiamo incontrato Antonio e Hussein, due giovani che vivono nella valle della Caffarella a Roma.

Da diversi anni Carla Finn interpreta il suo mandato di tutela e protezione delle aree naturali e archeologiche in una declinazione che include la sicurezza delle persone che si ritrovano a viverci.

Grazie al suo impegno e alla sua richiesta di collaborazione, siamo venuti a conoscenza della situazione di due giovani uomini, Antonio e Hussein, provenienti dal El Salvador e dell’Iraq. Entrambi hanno alle spalle un passato fortemente traumatico e attualmente, pur conoscendo i percorsi dedicati alla marginalità e all’assistenza disponibili a Roma, non accettano di usufruirne.
L’esperienza del diventare senza dimora può comportare vissuti traumatici relazionali e complessi prima, durante e dopo la perdita della casa. Il disturbo post traumatico da stress, come confermano varie fonti, sembrerebbe di fatto incidere su circa i tre quarti di questa popolazione.


In casi come questi, per promuovere un cambiamento significativo è necessario ricomporre le cesure nette che i soggetti hanno organizzato verso il contesto esterno e ricucire a ritroso i nessi socio-familiari, nel rispetto dei tempi della persona.
Stiamo quindi progressivamente supportando Antonio e Hussein nel tentativo di riconnetterli con le famiglie di origine. Attualmente, se per Antonio è stato possibile ricostruire una consuetudine di scambi e incontri con la sorella che vive in Italia, per Hussein è più complicato rientrare in contatto con la famiglia, persa a causa della diaspora irachena.


Proseguiamo quindi a collaborare con associazioni, istituzioni e singoli cittadini nel tentativo di rispondere alla necessità di una popolazione “portatrice di un disagio complesso, dinamico e multiforme, che non si esaurisce alla sfera dei bisogni primari ma che investe l’intera sfera delle necessità e delle aspettative della persona, specie sotto il profilo relazionale, emotivo ed affettivo” (fio.PSD).

Ciao Joseph

La mattina del 4 dicembre, Joseph Compaore è morto all’ospedale Cristo Re dove era ricoverato da mesi.

Joseph arriva in Italia dal Burkina Faso nel 1978, per studiare Medicina grazie ad una borsa di studio.

Dopo qualche anno, si blocca all’esame di fisiologia e perde la borsa, e da lì, comincia a perdersi anche Joseph. Inizialmente si guadagna da vivere suonando e cantando nei locali, lavora in una conceria in Veneto, poi va in Puglia per la raccolta di frutta. Qui subisce un’aggressione molto violenta che lo porta in ospedale e poi a stabilirsi nel parco di Tor di Quinto.

Vive dietro una trincea di giornali, coperto solo da un telo in tutte le stagioni. Nessuna tenda, perché non può nascondersi al cielo, ci dice, e così anche durante la famosa nevicata del 2012 lui sorridente e sommerso nella neve, e noi a tremare, non di freddo ma di paura, perché non riuscivamo a spostarlo da lì.

Non chiede mai nulla, e parla pochissimo.

Accetta solo cibo e sigarette, la sua grande passione insieme al caffè. Sempre molto educato, si limita a risposte cortesi: “grazie sì, grazie no”.

Soprattutto “grazie no”.

Insieme, come SMES Italia e Comunità di S. Egidio, accompagniamo Joseph a quella che sarà ancora una nuova vita, dopo un primo passaggio in ospedale e casa di cura, viene accolto dalle suore di madre

Teresa di Calcutta prima e dal don Calabria poi, e questa diventa la sua casa, dove riprende a suonare la chitarra, fare le collane, preparare le pizze, lavare i piatti, fotografare…

Joseph rientra in contatto con la sua famiglia in Burkina Faso, persa da 30 anni.

Joseph è sinonimo di eleganza.

A cominciare dal suo italiano, elegante ed antico o, per dirla con le sue parole, un italiano desueto. Un’ eleganza regale, in tutto, nel portamento, nel modo di sedere su una panchina, di suonare la chitarra, di camminare, elegante nel respingere un invito, di girare le almeno due bustine di zucchero nel caffè, elegante nei gesti rapidi di togliere il filtro dalla sigaretta, nel modo di formare la sigaretta col tabacco, ed elegante nel tenerla tra le dita.

Elegante e colto.

Ha una fissazione per lo studio. Per sé e soprattutto per i piccoli di casa. È arrivato in Italia per studiare e migliorare le condizioni della sua famiglia e del Burkina, e questi obiettivi per Joseph passavano attraverso lo studio e la cultura.

Elegante, colto e buono, di una bontà disarmante.

Joseph ha avuto una vita sofferta, nello spirito e nel corpo, si è sentito buttato fuori da tutto, come sapeva spiegare bene lui stesso: “ho sperimentato tutto sulla pelle cosa significa essere Joseph, ora sono fuori dal gioco”. Questa durezza della vita non ha scalfito il suo cuore, non era capace di provare rancore, si ritirava nel suo mondo, si autoimponeva mille divieti, e restava buono, e non ti spiegavi perché.

Joseph non aveva nulla, e aveva tutto l’amore del mondo, che elargiva con naturalezza, non per generosità, ma perché lui aveva davvero dentro il senso della gratuità, di amare e basta, senza misura e senza corrispettivi.

Dopo un recente problema respiratorio, si era ripreso perfettamente ed è morto perché era 41mo nella lista per una struttura riabilitativa e in ospedale, per motivi burocratici, non è stato possibile far accettare un fisioterapista che avrebbe pagato con i risparmi derivanti dalla sua pensione di invalidità. Alla fine è morto perché non riusciva più ad alzarsi dal letto.

Negli ultimi 15 anni era rientrato nella vita e pensiamo che non fosse questo il suo momento di andarsene.

Era arrivato in Italia per studiare e migliorare le condizioni della tua famiglia e del Burkina, e uno di questi sogni lo ha realizzato, con i suoi risparmi potrà continuare ad aiutarli.

Ciao Joseph, sei nelle nostre vite, profondamente, indelebilmente nelle nostre vite.