Home-less, Home-first e processi di cura

HOME-LESSHOME-FIRST E PROCESSI DI CURA

INTERVENTI COMPLESSI PER SFD NELLA CORNICE DI UN CENTRO DI SALUTE MENTALE

Silvia Raimondi, Giuseppe Riefolo*

*Dipartimento di Salute Mentale – ASL Roma 1

Riassunto: Il Centro di Salute Mentale di Via A. di Giorgio, afferente al Dipartimento di Salute Mentale della ASL RM/1, in considerazione dell’elevato numero di fallimenti degli interventi operati sulla popolazione dei Senza Fissa Dimora, ha analizzato il fenomeno alla luce di due variabili: l’organizzazione operativa della risposta ed il profilo psicopatologico dei S.F.D. Questa analisi ha prodotto la costituzione di una equipe costituita da operatori del DSM, del SOS del Comune di Roma, Vigili Urbani ed associazioni di Volontariato. Sul piano psicopatologico sembra efficace la distinzione in “home-first”, soggetti SFD per condizioni di povertà e “home-less” persone con disagio psichico reattivo a fallimenti del progetto di vita. La costituzione di un gruppo di lavoro integrato, ha permesso di gestire con maggiore efficacia situazioni che in passato ponevano in scacco istituzioni ed operatori. Tale tipo di intervento richiede una rete di collaborazioni fra servizi che abbiano chiare le competenze reciproche. L’intervento non ha richiesto alcun investimento economico supplementare.

Parole chiavehome-first, homeless, povertà, psicopatologie, lavoro d’equipe.

AbstractHome-less, home-first and therapy process. Complicated operations for home-less in a context of a mental health center. The Public Mental Health Service A. Giorgio, afferent to the Mental Health Department ASL RM / 1, due to the many failures of the actions undertaken on the  Homeless’ population, has analyzed the phenomenon through two variables: the operational organization of the response and the psychopathological profile of the homeless population. The result implied the constitution of a team made up of staff belonging to the Mental Health Department, the Social Emergency Room of the City of Rome, the traffic police and voluntary associations. The distinction in two main categories, “home-first”, a condition due to concrete poverty and “home-less” people with psychic disorders responsive to life project’s failures, seems effective even on a psychopathological area. The establishment of an integrated working group, allowed to manage more effectively situations which in the past led to certain failures. This kind of intervention needs a network of partnerships between services where each competence is clearly known. To be underlined that this intervention did not required any additional financial investment.

Key wordshome-first, homeless, poverty, psychopatholgies, teamwork.

[1]1. Premessa

Lavorando in un servizio territoriale pubblico di Salute Mentale a Roma, spesso ci sono arrivate richieste di intervento per soggetti senza fissa dimora (SFD), i quali, a vario livello di intensità e di gravità psicopatologica, presentano disturbi del comportamento. Puntualmente, in questi casi, la domanda non arriva direttamente dai pazienti, ma è posta da comuni cittadini, operatori di associazioni di volontariato o operatori sociali di altri servizi pubblici o ancora da forze dell’ordine o vigili urbani. Puntualmente ci si trova nella condizione di non poter dare alcuna risposta a tale tipo di domanda per il fatto che questa è posta secondo modalità molto improvvisate, dove, sulla spinta dell’urgenza, si avanzano richieste alle quali il nostro servizio non può dare seguito. Puntualmente ci viene chiesto di “occuparci della situazione di grave disagio” senza considerare che, in ogni caso, un servizio psichiatrico territoriale pubblico non è in grado di effettuare interventi di urgenza, non dispone di soluzioni assistenziali di ordine economico, né di sostegno alla quotidianità, né di tipo residenziale per questi casi.

Tale modalità molto aspecifica e sostenuta solo sull’urgenza, produce puntualmente un profondo senso di impotenza nel nostro servizio e contestualmente irritazione nei servizi richiedenti il nostro intervento. Nella migliore delle ipotesi in simili circostanze si tenta di prescrivere o somministrare una terapia farmacologica quando possibile, ma con estrema difficoltà in quanto, in un Centro di Salute Mentale, non sono disponibili farmaci per le urgenze e la prescrizione di una terapia farmacologica ha poco senso se il paziente non ha le condizioni minime per mantenere la necessaria continuità e adesione alla cura, né per disporsi a tornare per i controlli successivi.

Da sempre questo tipo di utenza rappresenta per i servizi psichiatrici territoriali un elemento di impotenza, ma soprattutto è sempre stato evidente come tutti i servizi coinvolti a vario titolo, devono arrendersi di fronte alla impossibilità di stabilire percorsi di cura e di assistenza adeguati e soddisfacenti.

2. Prime considerazioni

Alla luce di quanto fin qui descritto, a partire dal 2010, in concomitanza con una delle tante richieste “urgenti” proposte al nostro servizio, iniziamo ad occuparci del problema in modo organico, analizzando sia le caratteristiche dei quadri patologici che ci si presentano, sia le difficoltà di collaborazione fra le molte istituzioni coinvolte a vario titolo.

Iniziamo tale analisi a partire dal secondo punto, ovvero dall’evidenza di una difficoltà di dialogo e cooperazione fra agenzie ed operatori differenti. Da un’analisi anche molto elementare emerge che ognuna delle organizzazioni coinvolte non conosce le competenze e le specificità delle altre e ciascuna proietta sulle altre istituzioni o sugli altri operatori il peso dell’urgenza e soprattutto la frustrazione della propria impotenza di fronte alla complessità dei casi che si presentano. La apparente “gravità” dei casi, in effetti, comincia a definirsi meglio proprio in ordine alla dimensione della “complessità” della domanda, che in quanto tale, necessita di un intervento per così dire “multidisciplinare”, dove si rende necessaria la collaborazione e l’intervento di più organizzazioni.

3. Il livello organizzativo

Il primo livello di intervento che abbiamo pensato è stato quello di contattare tutte le organizzazioni – private, di volontariato, pubbliche, sanitarie, assistenziali… – che a vario titolo risultano coinvolte nella domanda di intervento urgente che questo tipo di pazienti evoca. Si è proceduto ad una serie di incontri preliminari in cui ribadire la necessità della conoscenza reciproca, delle rispettive competenze e specificità, per poi stabilire percorsi articolati possibili in situazioni di urgenza socio-sanitaria che coinvolgessero soggetti SFD.

In quanto servizi sanitari per la salute mentale abbiamo ribadito il nostro interesse ad occuparci di pazienti che presentino problemi di ordine psicopatologico, collaborando con operatori di altre organizzazioni allo scopo di sostenere possibili percorsi di cura, dai più impegnativi che implichino anche ricoveri ospedalieri in Trattamento Sanitario Obbligatorio, fino ad interventi verso pazienti che accettino le cure ambulatoriali presso il nostro servizio. Da diversi anni quindi, questo gruppo integrato si riunisce ogni due mesi con un triplice obiettivo:

1. monitoraggio dei bisogni di questo tipo di utenza nel territorio del nostro servizio (un territorio di circa 100.000 abitanti);

2. monitoraggio dei casi già seguiti dove l’aiuto delle organizzazioni di volontariato è essenziale in quanto sono i volontari, soprattutto, a mantenere i contatti tra il nostro servizio e i pazienti;

3. accoglienza di nuovi casi e definizione dei possibili interventi.

4. Il livello psicopatologico

Un secondo momento di analisi ha riguardato la possibilità di definire soprattutto da un punto di vista psicodinamico gli aspetti peculiari del tipo di utenza che molto spesso sono offuscate dalla prevalenza di aspetti sociali regrediti o degradati. La nostra esperienza con questo tipo di pazienti suggerisce la presenza di uno specifico quadro patologico al confine fra disturbi borderline o schizoidi di personalità e disturbi schizofrenici, che comunque richiamano, con diverso livello di intensità, caratteristiche di reattività ad esperienze di vita traumatiche contingenti.

In ambito psicopatologico queste caratteristiche di “reattività traumatica” si organizzano e riscontrano frequentemente su strutture di personalità sufficientemente integre, ovvero con ampie aree della personalità sostanzialmente sane. Tale prognosi positiva confligge con l’apparente estrema gravità che il quadro clinico sembra suggerire, sostanzialmente per il fatto che la componente di degrado sociale viene a prevalere e a connotare la componente più evidente del quadro clinico. Inoltre, soprattutto analizzando alcuni comportamenti “attivi” dei pazienti più gravemente dissociati, emerge come molto spesso essi riescano ad organizzare e mantenere “attivamente” separati, o in conflitto fra loro, i diversi operatori che se ne occupano (spesso sono disponibili con alcuni operatori, ma ostili ad altri; da alcuni operatori accettano soluzioni solo finché queste soluzioni non coinvolgano altri operatori o altre organizzazioni; sul piano della sussistenza elementare risultano particolarmente capaci per quanto, alcune volte, in conflitto con le proposte di alcuni operatori…).

La storia clinica di alcuni di questi pazienti risulta estremamente significativa ed esemplare nel senso di evidenziare una tipica attitudine a tenere separati tutti i contesti di realtà che si occupano di loro: in tutti i pazienti di cui ci siamo occupati, compresi soprattutto due nord-africani che hanno avuto bisogno di ricovero in TSO, emerge sempre come questo tipo di paziente si collochi attivamente in una sorta di “terra di nessuno” dove essi organizzano l’impossibilità di poter andare avanti, ma anche di poter tornare indietro rispetto ad eventuali esperienze di migrazione (per quanto riguarda pazienti migranti) o di allontanamento dal proprio domicilio (per quanto riguarda soggetti italiani che per motivi psicopatologici si sono allontanati dal proprio contesto familiare).

Nei due casi più gravi di cui ci stiamo tuttora occupando, è evidente che entrambi siano venuti in Italia con progetti lavorativi o di studio particolarmente organizzati, ma che non abbiano saputo rispondere alle difficoltà qui incontrate ripercorrendo la via del ritorno nel proprio paese di origine, così collocandosi in una dimensione senza tempo e senza processo che li salva dalla insostenibile verifica depressiva di presentare un fallimento del proprio progetto di vita.

In questi due casi tale soluzione “terra di nessuno”, al momento del nostro intervento è in essere già da circa 25 anni e il nostro intervento integrato fra diverse organizzazioni ha sicuramente permesso di riattivare parametri dell’ordine temporale e processuale che ora fanno pensare alla possibilità di un prossimo reintegro di questi pazienti nel proprio contesto di origine.

In un relativamente breve periodo di intervento il nostro gruppo si è occupato di venti pazienti, perlopiù di etnia slava e nordafricana, alcuni dei quali molto gravi hanno avuto bisogno di ricoveri presso servizi psichiatrici di diagnosi e cura, mentre altri sono stati seguiti (e lo sono tuttora) ambulatorialmente. Al momento i pazienti italiani di cui ci siamo occupati sono due, uno dei quali dopo alcuni mesi di presa in carico, è rientrato in Calabria, sua terra di origine, seguito dalla sua famiglia e dai servizi della sua regione. Altri pazienti sono stati seguiti per un periodo e poi, magari hanno fatto perdere nuovamente le loro tracce.

L’intervento, quindi, per soggetti SFD con problemi psicopatologici comporta in prima battuta che si proceda ad una separazione sul piano dell’inquadramento psicopatologico tra:

1. disturbi psicologici dovuti all’esperienza della povertà concreta;

2. disturbi psicopatologici dovuti a fallimenti di progetti di vita.

Nel primo caso i disturbi psicopatologici sono riferibili a modalità di adattamento a contesti sociali regrediti che permettono al soggetto un sufficiente funzionamento sociale. In questa categoria i soggetti mantengono, a livelli di organizzazione primitiva, le proprie competenze di relazione sociale, la competenza ad organizzare progetti di sopravvivenza e, quindi, la competenza, spesso molto ben strutturata ed articolata, alla conoscenza di percorsi di utilizzo di soluzioni assistenziali che, soprattutto, abbiano la caratteristica di non esporli a livelli anche minimi di responsabilità e di processualità che imponga la loro partecipazione e collaborazione attiva. Si tratta della gran parte dei soggetti SFD, che peraltro sono in grande aumento negli ultimi tempi segnati dalla crisi economica, che riescono a contattare direttamente o indirettamente le istituzioni assistenziali o anche sanitarie, che sanno organizzare autonomamente soluzioni di vita residenziali (occupando casali abbandonati, utilizzando ponti, ecc…) accedendo a piccole soluzioni di aggregazione sociale, organizzando e condividendo le proprie soluzioni di vita con altri, definendo piccoli gruppi coesi su modalità estremamente concrete di sopravvivenza.

Nel secondo caso i pazienti risultano decisamente “organizzati” in una modalità di relazione nettamente dissociata con nessuna o scarsissima capacità di relazione. Si tratta di soggetti che, prima ancora che reattivi a esperienze di povertà concreta, sembrano aver organizzato una modalità esistenziale dissociata a seguito di – e quindi reattiva a – esperienze di fallimento di progetti di vita. La soluzione dissociativa sembra essere l’ultima soluzione vitale di una sorta di suicidio psicologico-esistenziale per cui questi soggetti, nella loro soluzione psicopatologica, si mantengono in vita, ma in un contesto relazionale per il quale loro devono essere trasparenti, anzi invisibili. Si tratta di una profonda ferita narcisistica che si organizza a livello ontologico, in persone per altro sostanzialmente sane. Per fortuna, nell’ambivalenza vitale del sintomo, mentre per alcuni versi cercano soluzioni per la propria invisibilità, parallelamente si collocano in contesti sociali dove la loro visibilità si segnala in modo particolare per motivi di ordine concreto e sociale. Infatti, solitamente occupano posti frequentati da molta gente (parchi, giardinetti,…) o si collocano all’incrocio di importanti arterie stradali sia urbane che extraurbane. A differenza della prima tipologia di utenti, questo tipo di pazienti non accede a posti di sufficiente emarginazione e distanza dal rumore sociale, anzi sembra cercare questa dimensione secondo modalità automatiche e, soprattutto, si tratta di pazienti che non cercano ed evitano attivamente ogni forma di aggregazione con altri soggetti SFD.

In un paio di casi tra i più gravi seguiti dal nostro gruppo, un paziente vivendo in un giardino pubblico riservato al passeggio dei cani, ne aveva assimilato totalmente le abitudini di vita – sul piano alimentare e dei bisogni fisiologici -, mentre l’altro, sempre vivendo all’interno di un parco molto frequentato, si era costituito una trincea di giornali e cellophan e viveva nella convinzione di non avere pelle o organi interni (infatti la prima parte dell’intervento, durata alcuni mesi in regime di ricovero, ha permesso che ciascuno dei due pazienti recuperasse le abitudini alimentari e dell’uso degli sfinteri e si riconoscesse capace di avere pelle ed organi interni…). In questo tipo di pazienti ciò che appare come degrado e perdita di competenze vitali, in realtà va considerato come progetto attivo, di ordine dissociativo, da parte del paziente, il quale (ovviamente sul piano inconscio) si mantiene all’interno di una socialità anonima e diffusa, mentre tende a disarticolare ogni nesso che possa legarlo sul piano relazionale specifico al contesto sociale e, soprattutto, interrompe difensivamente ogni possibile nesso che il contesto sociale che lo circonda e che si occupa di lui possa organizzare, anche attraverso il coordinamento di interventi.

Intendiamo affermare che la disorganizzazione, l’autoreferenzialità e il costante senso di risentimento e fallimento in cui puntualmente operano tutte le istituzioni che si occupano di questo fenomeno, è da riferire soprattutto alla collusione delle nostre organizzazioni con un progetto patologico (dissociativo) attivo, sostenuto da questo tipo di pazienti. Non a caso, questo secondo tipo di pazienti risulta sostanzialmente inavvicinabile da ogni programma di recupero con grande frustrazione degli operatori che se ne occupano, mentre il primo gruppo – ovvero quelli che sanno organizzare la regressione dovuta all’esperienza di povertà concreta – risultano molto più gratificanti per gli operatori che se ne prendono cura, in quanto rispondono seppur in modo concreto, alle sollecitazioni finalizzate alla loro integrazione ed assistenza.

5. Home-first, home-less

Volendo utilizzare uno slogan avanzato nel convegno SMES tenutosi a Roma nel 2013, potremmo dire che la prima categoria di pazienti corrisponderebbe alla definizione di “home-first“, dove è la mancanza di un bene primario e la contingenza delle condizioni di vita scadute a determinare gli aspetti più gravi del disagio; mentre la seconda aderisce alla condizione di “home-less“, dove non è la povertà il fattore precipitante quella condizione. La rete interdisciplinare che è stata organizzata dal nostro gruppo si è occupata in modo essenziale di questo secondo gruppo di pazienti in cui un profondo disturbo psicopatologico riferibile all’identità sembra essere preminente nella determinazione della marginalità.

Per il primo gruppo di pazienti riteniamo che gli interventi di sostegno sociale, magari affiancati anche da possibili consulenze di ordine psicopatologico, risultino preminenti e spesso risolutivi (per quanto questi pazienti vadano comunque rispettati nella loro esperienza traumatica della povertà che ne motiva molto spesso la estrema organizzazione concreta spesso stabilizzata).

Nell’intervento verso la categoria di pazienti psicopatologicamente più gravi che abbiamo definito “home-less” vi è la necessità che una serie di servizi i quali – a vario titolo sono sempre stati coinvolti ma in modo autoreferenziale – si organizzino a rete definendo le reciproche competenze e soprattutto percorsi positivi possibili attraverso cui prendersi cura di questi soggetti (ribadiamo che, sul piano formale, questi pazienti non potrebbero essere ricoverati presso Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura – SPDC – perché solitamente non pazienti in acuzie e, peraltro, potrebbero non essere seguiti dai nostri servizi psichiatrici territoriali in quanto, solitamente, non volontari o, comunque, non collaborativi…).

6. Particolarità delle difese dissociative

L’organizzazione e, soprattutto, la “manutenzione” di una rete composta dai vari servizi sanitari, sociali e di volontariato, permette che questo tipo di pazienti possa ricevere cure e che possano rientrare nei percorsi di sostegno sociale necessario.

Tale intervento risulta inoltre estremamente più economico – oltre che più efficace – rispetto a quanto finora realizzato, in quanto l’assenza di coordinamento invalida l’esito delle iniziative, spesso inutilmente reiterate ed inefficaci, con attivazione di grave conflittualità ed effetto di delega fra i diversi operatori e le diverse organizzazioni convocate per “risolvere” il caso.

E’ importante ribadire che, a differenza della gravità apparente delle situazioni di disturbo psicopatologico e disagio sociale in cui incontriamo questo tipo di pazienti, si tratta di soggetti sostanzialmente “sani”, ovvero capaci di organizzare difese dissociative rispetto ad eventi gravemente traumatici per la loro esperienza. L’alta reattività del quadro clinico, per definizione, in psicopatologia significa esistenza di una buona struttura di personalità capace di organizzare difese dissociative prima di frammentarsi nella destrutturazione schizofrenica.

Le difficoltà emerse in questo tipo di intervento sono dovute soprattutto alla completa mancanza di reti e protocolli relativi alla integrazione delle funzioni fra le diverse organizzazioni coinvolte: ciò implica che piuttosto che operare in un assetto di assunzione di responsabilità, si attivino comportamenti di delega e di evitamento, protettivi rispetto ai livelli di fallimento e frustrazione conseguenti alla assenza di progetti prestabiliti e concertati.

Un ultimo rilievo riguarda l’entità quantitativa del fenomeno che, dal nostro vertice, appare estremamente esiguo, ma di tale difficoltà che spesso pochi casi sembrano attivare un grande clima di impotenza e di confusione nei vari servizi coinvolti. Sarebbe utile, a nostro parere, che le organizzazioni comunali organizzassero un centro di raccordo e di collegamento fra le diverse istituzioni e che fossero definiti possibili percorsi clinici e riabilitativi per le diverse tipologie di utenti (gravi carenze permangono sul piano dei contatti con le ambasciate o con i servizi sociali per difficoltà di ordine normativo: spesso questi utenti sono sprovvisti di documenti necessari per l’accesso a vari dispositivi assistenziali, anche di natura medica).

7. Claudio

Quando lo incontriamo Claudio ha circa 30 anni. Ce lo segnala un gruppo di volontari che opera nella zona di Roma nord e che partecipa agli incontri del nostro gruppo di lavoro sui SFD presso il Centro di Salute Mentale.

Da circa tre anni, ormai, Claudio si è insediato nel parco di un istituto di riabilitazione per soggetti con gravi patologie neurologiche, gestito da religiosi. Nel parco si è costruito una capanna con mezzi di fortuna e non accetta l’invito a spostarsi in un luogo più protetto che i religiosi gli offrono. Resiste ad ogni tentativo fatto dai servizi sanitari e dai vigili urbani perché abbandoni quel luogo. Gli unici contatti sono con il gruppo di volontari che ogni sabato gestisce il servizio docce utilizzato da Claudio. Di lui si sa solamente che è italiano, originario della Calabria. Non accetta di dare sue notizie a nessuno. Con un volontario del gruppo ha particolare familiarità e fiducia e, quando ci viene segnalato, questo volontario viene incaricato da parte del gruppo di tentare di accompagnarlo in ambulatorio per essere visitato dallo psichiatra del gruppo.

Questo approccio rappresenta solamente un modo semplice di stabilire un contatto e presentare proposte rispettose della capacità di scelta di Claudio. Con sorpresa del gruppo Claudio accetta di arrivare in ambulatorio e di essere visitato dallo psichiatra. Durante il colloquio, per quanto con temi deliranti e toni ipomaniacali, racconta la sua storia di figlio di una famiglia numerosa e povera della provincia di Reggio Calabria, di essere stato seguito, in Calabria, dai servizi psichiatrici e di essere partito per Roma spinto da motivazioni deliranti di “espiazione di gravi colpe”.

Sul piano diagnostico Claudio presenta un chiaro quadro clinico di “paranoia”, ben strutturata su tematiche deliranti in cui i temi sono organizzati su antichi vissuti di colpe sessuali ed incestuose riferiti soprattutto alla sorella. La scelta di fuga dal proprio paese di origine, i vagabondaggi e l’esposizione ad una “vita all’aperto dove il tetto dovesse essere solo il cielo” sono evidenti tentativi di espiazione dalle gravi colpe di cui Claudio si accusa. Il suo abitare in un prato rappresenta la condizione per un necessario rapporto con “Dio che dal cielo può sempre essere in contatto con me per controllarmi e proteggermi”.

Claudio viene tranquillizzato: l’incontro con uno psichiatra non metterà a rischio i suoi “contatti” che lo rassicurano e senza i quali lui sicuramente si sentirebbe perso, ma è una buona cosa che lui assuma un farmaco neurolettico depot (Aloperidolo, 100 mg, fiale) al fine di essere aiutato ad avere una “maggiore concentrazione e chiarezza dei pensieri”. Sul piano strettamente tecnico, questo tipo di intervento vuole essere una comunicazione di assoluto rispetto dell’organizzazione psichica del paziente a cui si può accedere attraverso l’ambiguità del registro comunicativo, attivando così un livello di cura e sostegno psicologico attraverso operazioni semplici e concrete. In sostanza si tratta del linguaggio regredito delle organizzazioni psicotiche in generale che può essere mediato da una “relazione psicofarmacologica” (Racamier, Carreter, 1972).

In effetti Claudio, dopo aver chiesto informazioni e rassicurazioni, accetta di effettuare l’iniezione del farmaco che dovrà ripetere dopo 3 settimane. Gli vengono spiegati i rischi di eventuali effetti collaterali e il motivo per cui si sta decidendo di introdurre un farmaco. La funzione del farmaco è anche quella di mettere le premesse per successivi incontri al fine concreto di “controlli della terapia” che Claudio accetta.

Si organizza così una piccola équipe di riferimento per Claudio, composta dal volontario, dallo psichiatra e da un’assistente sociale del Dipartimento di Salute Mentale (DSM). Claudio ritorna prima dell’appuntamento fissato poiché ha visibili effetti collaterali dovuti al farmaco (parkinsonismo, acatisia e rigidità articolari), ma non ne è turbato, anzi manifesta la sua fiducia nel medico perché “sono effetti collaterali di cui lei, dottore, mi aveva parlato…”. Questa volta viene in ambulatorio per capire se c’è una soluzione. Gli viene quindi modificata la terapia che produce da subito buon esito. Durante gli incontri successivi, dove Claudio pian piano riesce ad arrivare anche da solo e non più accompagnato dal volontario, si riescono a raccogliere dati importanti che permettono di contattare i familiari in Calabria ed i servizi psichiatrici da cui è stato seguito anni addietro. Attraverso una nostra mediazione viene ricontattato il direttore del centro riabilitativo nel cui parco ancora vive. Diventa possibile, quindi, che Claudio accetti di abbandonare la baracca nel parco e sia ospitato all’interno dell’istituto dove partecipa, con grande impegno e successo, all’accompagnamento di un paziente gravemente tetraplegico.

A questo punto si pensa di invitare la madre a Roma, dove si organizza un incontro con il figlio presso il nostro servizio. L’incontro è positivo pur ribadendo Claudio la decisione irremovibile di non voler mai più tornare in Calabria.

Intanto la terapia farmacologica viene assunta con regolarità da Claudio che si presenta presso il nostro servizio ogni 3 settimane. I temi deliranti appaiono sempre meno espliciti e migliora notevolmente anche la sua capacità critica. In accordo con la madre e con il paziente, si decide di aprire una pratica di riconoscimento di invalidità che viene avviata da noi nonostante lui sia residente ufficialmente in Calabria. Questo ci dà modo di contattare i servizi di Reggio Calabria che si dichiarano disposti a seguirlo qualora lui accettasse di ritornare a casa. A questo punto ci raggiungono al Centro di Salute Mentale la madre accompagnata da una sorella e finalmente, al fine di effettuare le necessarie visite mediche per il riconoscimento di invalidità, Claudio accetta di tornare in Calabria dove continua la terapia farmacologica presso i servizi psichiatrici della sua residenza preventivamente contattati da noi.

Claudio è andato via da Roma da più di tre anni e in questo periodo ha mantenuto contatti telefonici soprattutto con il volontario, mentre in alcune occasioni, attraverso il volontario è stato possibile anche per lo psichiatra poterlo salutare ed avere sue notizie. Ci racconta di un buon inserimento nel suo contesto familiare e sociale (fa piccoli lavori in campagna…) e in alcune occasioni è stato a trovare la sorella ed altri familiari emigrati a Torino.

8. Alcune considerazioni.

Questo progetto e la sua buona riuscita sono stati realizzabili grazie alla costituzione di un gruppo operativo per la gestione di soggetti SFD specificamente costituito presso il Centro di Salute Mentale del territorio. Tale gruppo si avvale di una rete di collaborazioni complementari fra istituzioni e servizi che solitamente sono chiusi nelle proprie competenze specifiche, che semplicemente rinviano ad altri servizi la necessità e l’onere degli interventi. Solamente in questo modo è stato quindi possibile accogliere e dare seguito alla domanda portata dal volontario che segnalava le precarie condizioni di Claudio, mentre per anni le richieste del volontario o del direttore dell’Istituto Riabilitativo o degli stessi Vigili Urbani, sono cadute nel vuoto dovuto all’assenza di rete fra i vari servizi.

In Italia, in questi casi, la rete fra istituzioni e servizi non è prevista e l’autonomia e le rispettive “mission” di ciascun servizio sostanzialmente impediscono la organizzazione di una rete coordinata di intervento, con grande dispendio di energie anche economiche oltre la frustrazione degli operatori coinvolti. Sicuramente l’intervento coordinato di rete è risultato, in questo caso come in altri effettuati dal gruppo in questi anni, efficace sul piano degli esiti e non ha richiesto alcuna risorsa economica aggiuntiva rispetto a quelle in dotazione a ciascun servizio. Rispetto ad altri casi, nonostante la gravità clinica inizialmente molto esplicita, non è stato necessario attivare alcuna operazione di ricovero e tanto meno di ricovero obbligatorio poiché nel contatto con Claudio, mediato dalla profonda fiducia che lui aveva nel volontario che se ne occupava, è stato sufficiente organizzare un contesto relazionale positivo anche attraverso la sostanziale tolleranza, da parte del nostro gruppo, delle “soluzioni psicotiche” adottate da Claudio che si sono lentamente modificate parallelamente alla sua capacità di recuperare una buona dimensione relazionale, fino a quel momento pervasa solo da sensi di colpa rispetto a cui il suo vagabondare risultava reattivo e “psicoticamente risolutivo”.

La gestione di questo caso è stata, alla fine, estremamente semplice ed economica soprattutto perché sono emerse insospettate capacità di integrazione da parte di Claudio oltre che disponibilità alla collaborazione da parte della famiglia.

Trattandosi di un soggetto di nazionalità italiana, non è stato difficile che un servizio del Sistema Sanitario Nazionale (SSN) se ne potesse occupare. C’è da segnalare, comunque, che sul piano strettamente formale il nostro servizio, a Roma, avrebbe potuto evitare di occuparsene in quanto il soggetto, residente in altro territorio, non risultava di nostra “competenza territoriale” e, pertanto, già la stessa “competenza territoriale” in questo caso (come di solito accade) avrebbe potuto inaugurare una sequela di rinvii di competenze fra servizi con l’esito di lasciare un soggetto psichicamente sofferente e bisognoso privo di cure, nel suo attivo e raffinato collocarsi stabilmente sul crinale delle competenze dei vari servizi, ovvero quel luogo che abbiamo definito, la “terra di nessuno”.

Pertanto, sarebbe necessario che le modalità di organizzazione a rete dei vari servizi non siano solo affidate a posizioni volontaristiche di alcuni operatori, ma che possano organizzarsi in precisi nuclei di intervento per questo tipo di soggetti ed in precise normative che descrivano il percorso di presa in carico di pazienti SFD con problemi psichiatrici. Si tratterebbe, a nostro parere, di trovare modalità che spostino l’organizzazione dei servizi dalla “competenza territoriale” alla “competenza clinica” attraverso l’organizzazione di apposite équipe multidisciplinari per questo tipo di utenza, che magari facciano capo alle amministrazioni comunali prima che sanitarie.

Riferimenti bibliografici

ASSNAS (a cura di Franca Dente e Graziella Povero); Giornata Mondiale contro la povertà estrema 17 ottobre 2003: I Senza Fissa Dimora in Italia

AA.VV., DOSSIER STATISTICO IMMIGRAZIONE 2015 , ROMA Centro Studi e Ricerche IDOS, 2015

Comunità di Sant’Egidio “Rapporto sulla povertà a Roma e nel Lazio 2012” , Milano, Francesco Mondadori, 2012

Assessorato alle Politiche per la Promozione della Salute, Storie di barboni rasati a secco, Roma, Armando Editore, 2000

Mental Health Foundation, Mental Health and Housing, Policy paper (prepared by Jonny Savage), 2016


[1] Il seguente contributo è relativo al convegno “Margini, persone, comunità. La salute mentale nel grave disagio sociale”, Firenze, 27 maggio 2016.